L'11 settembre della Somalia

20 ottobre 2017
Un funzionario ha definito l’attentato del 14 ottobre a Mogadiscio “l’11 settembre somalo”, un’affermazione pesante ma non fuori luogo. Molti si chiedono perché i principali giornali di tutto il mondo abbiano mostrato così grande avarizia nel fornire

notizie su un evento di simili e orrende proporzioni. 

Non è la prima volta che le persone sentono parlare di terrorismo o attentati nella capitale somala. Gli attentati commessi dal gruppo Al Shabaab, affiliato ad Al Qaeda, sono diventati un evento così consueto da produrre un effetto simile a quello che proviamo quando sentiamo parlare di attentati a Baghdad, in Nigeria, a Bamako o a Kabul. Ma l’attentato di sabato, avvenuto presso un trafficato incrocio di Mogadiscio, è stato definito il più grave attacco terroristico nella storia della capitale somala.

Morte nelle strade

Almeno trecento persone sono morte nell’esplosione di un camion bomba fuori dall’hotel Safari, a un incrocio in cui si trovano vari ristoranti frequentati da funzionari governativi. Due ore dopo, nel quartiere della Medina, c’è stata un’altra esplosione. La situazione sul campo era terribile. Oltre ai trecento morti, ci sono stati centinaia di feriti. Ci sono certamente altre vittime che ancora non sono state conteggiate. Il numero sarà stabilito alla fine dei difficili e lunghi soccorsi e dei tentativi di estrarre i corpi dalle macerie. Gli ospedali che si stanno occupando dei feriti hanno lanciato appelli urgenti a donare sangue. L’Associated press ha riportato le parole di un’infermiera, secondo la quale il personale è stato testimone di “orrori indicibili”, mentre i dottori hanno dovuto lavorare giorno e notte tra le urla dei feriti. In questa situazione, in molti si sono rivolti ai social network per capire perché gli eventi di Mogadiscio non stessero ricevendo la stessa copertura stampa riservata ad altri attacchi terroristici. Lo scrittore Marwan M. Kraidy ha scritto su Twitter: “Cercasi disperatamente #camionbombaMogadiscio. 276 morti non abbastanza per copertura stampa #IosonoMogadiscio”. Anche il professore di diritto Khaled Beydoun ha usato Facebook per scrivere: “Odio fare paragoni tra le tragedie umane, ma i mezzi d’informazione ci obbligano a farlo. Non c’è traccia di slogan su Mogadiscio o di immagini commoventi sui social network in segno di solidarietà”.

Questo assordante silenzio, o l’assenza di una solidarietà paragonabile a quella mostrata durante gli attentati di Manchester o Londra, ha suscitato grande sdegno.

Su Twitter l’hashtag #IamMogadishu è stato usato per esprimere il proprio cordoglio e la propria rabbia per gli attentati, e anche per condividere notizie. Ma il modo in cui questi eventi sono stati raccontati su scala globale non è stato, per le persone comuni, all’altezza della gravità degli eventi.

Non c’è ancora stata un’esplicita rivendicazione dell’attentato da parte di Al Shabaab, né una conferma da parte del governo. Il gruppo somalo alleato di Al Qaeda sembrerebbe aver mantenuto la propria promessa d’intensificare la campagna terroristica contro i civili e le infrastrutture statali. Appena due settimane e mezzo fa, il 29 settembre, Al Shabaab aveva compiuto un attentato contro una base militare, prendendone il controllo e uccidendo almeno otto soldati. La cosa assume un valore importante alla luce del divieto d’ingresso negli Stati Uniti per i cittadini somali annunciato dal presidente Donald Trump: in realtà, sono proprio questi cittadini le prime vittime del terrorismo.


Inoltre, come ha scritto Jason Burke sul Guardian, gli attentati di Mogadiscio potrebbero determinare un’intensificazione dell’impegno degli Stati Uniti in Somalia e in Africa in generale. Trump ha già definito la Somalia come “zona di attività ostili”. Per la prima volta dal 1994 – dopo l’abbattimento degli elicotteri Black Hawk a Mogadiscio e l’esposizione dei cadaveri dei militari per le strade della città – le forze armate statunitensi sono state inviate nel paese. È possibile affermare che Trump abbia deciso senza conoscere le complesse questioni di sicurezza somale, che richiedono ben più che la semplice potenza di fuoco, una lezione che abbiamo capito troppo tardi, come nel caso dell’Iraq.

Questi sviluppi hanno serie implicazioni, non solo per la sicurezza dell’Africa, ma per tutti noi. L’assenza di una copertura stampa veicola il messaggio sottinteso che le popolazioni dei paesi africani a maggioranza musulmana sono propense all’autodistruzione, un pregiudizio di cui molti somali si sono già lamentati.

Alcuni gesti di vicinanza

Bisogna ammettere che dopo gli attacchi ci sono state alcune dichiarazioni di solidarietà da parte dell’Unione africana. Inoltre il 16 ottobre a Parigi sono state spente le luci della torre Eiffel in ricordo delle vittime, e il sindaco di Toronto ha annunciato che le lettere che compongono il nome della città sarebbero state illuminate con i colori della bandiera somala.

La prima senatrice musulmana del Minnesota, Ilhan Omar, ha scritto in rete: “Sono felice di vedere che il mondo si sta svegliando, e spero che questi significhi che lavoreremo per portare un aiuto concreto”. A questa lista di reazioni si è aggiunto, in maniera meno onorevole, il ministro degli esteri britannico Boris Johnson, noto per le sue gaffe diplomatiche e le controversie di cui è stato al centro, il quale ha condannato le atrocità definendo però la fragile Mogadiscio come una “fiorente capitale”.
Si tratta sicuramente di reazioni puramente simboliche a un grave problema, che richiede molto più di quanto è stato fatto finora. Ma i gesti simbolici hanno la loro importanza. Mentre la diaspora somala e i suoi sostenitori prendono le cose in mano e cercano di non lasciare che la tragedia resti ignorata, è importante che le testate giornalistiche internazionali, quelle stesse capaci di riempire i nostri vuoti d’informazione, reagiscano adeguatamente a questi eventi. Per tutti noi, e in qualsiasi circostanza.

Adama Munu, Al Arabi al Jadid, Regno Unito

19 ottobre 2017 12.45

(Traduzione di Federico Ferrone)

tratto dal sito: www.internazionale.it
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